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L’arte e il suo ombelico, Riccardo Marco Scognamiglio

Quante prefazioni può avere un libro? Penso dipenda da quanti punti di vista si possano considerare per osservare un fenomeno che nel nostro caso è amplissimo: Plevano ci parla di vite che s’intrecciano e opere che marcano un ritmo percettivo di una realtà composita, psicosociale, politica, relazionale e affettiva. Entriamo in un universo complesso perché, se la vita di ciascuno è in sé complessa, quando l’arte si mette a fare da filtro, la complessità si fa esponenziale, rischiando anche di confondere piani. Per questo siano benvenuti punti di vista diversi, e che ciascuno prenda il suo filo di Arianna per addentrarsi in questo labirinto assai fitto.
A questo punto dovrò anch’io scegliere quale strada prendere. Comincerò da quella biografica, che mi sembra la più affine al libro. Bisogna però ricordare come Plevano, proprio per le scelte coraggiose che ha sempre fatto anche nel campo della professione artistica, ha intriso la sua arte di passaggi altamente personali. Tant’è che proprio il nostro incontro è stato, da subito, marcato proprio da questa personalissima scelta dell’autore di confrontarsi con uno psicologo dell’arte, anziché con un critico. Questo marcherà, inevitabilmente, la sua produzione, in quanto questo primo atto eversivo lo “condannerà” a una libertà espressiva rispetto alle linee di mercato imposte dalla critica d’arte; libertà cui non avrebbe saputo, d’altra parte, per indole caratteriale, rinunciare. Il nostro incontro diventa così icona della sua autenticità: voler sapere cosa le sue opere possono dire alla mente, anziché al marketing dei galleristi e dei critici, sarà una spinta estremamente potente.
Io, circa quarant’anni anni fa, ero un giovane studioso: psicoanalista alle prime armi e, tuttavia, già con un contratto di docenza all’Università di Bologna dove, nel 1983, nacque con Alessandro Serra il primo insegnamento accademico in Italia di Psicologia delle Arti afferente, all’epoca, alla Cattedra di Filosofia Estetica della grande scuola fenomenologica di Luciano Anceschi.
Alessandro Serra fu il correlatore alla mia prima laurea e mi propose subito di essere un suo collaboratore. Serra è stato uno dei più grandi traduttori italiani del mondo psicoanalitico e diventammo grandi amici nella passione per la Psicoanalisi e per la Fenomenologia. Mi suggerì di non fare la carriera accademica per mantenere quella libertà intellettuale per la quale avevo anch’io, per indole, un disperato trasporto. Lui mi avrebbe assicurato, in cambio, uno spazio di laboratorio che è durato per più di quindici anni, fino alla sua scomparsa e al mio trasferirmi alla Facoltà di Psicologia dell’Università di Milano-Bicocca.
Ancora ragazzino, dunque, tenevo un seminario annuale, esami e tesi. I pochi soldi che mi passava l’università li spendevo per poter organizzare eventi accademici: invitare artisti e studiosi importanti del mondo psicoanalitico. Allora Bologna era in grande fermento intellettuale. Erano i primi fulgidi anni del DAMS fortemente voluto da Umberto Eco che ne aveva dato una possente marca intellettuale: tutti ci abbeveravamo alla nuova dottrina della Semiotica con le sue infinite applicazioni a tutti i saperi. Così la Psicoanalisi stessa vi si intrecciava, soprattutto quella di Lacan, appoggiandosi, a sua volta, allo Strutturalismo linguistico di De Saussure e Jakobson e all’Antropologia di Lévi-Strauss.
Così la Psicologia delle Arti di cui mi occupavo, disciplina giovanissima e tutta da costruire, cresceva nell’intreccio di queste correnti culturali mitteleuropee e a essa prestavo tutto il mio entusiasmo. Si trattava, infatti, di uscire dai gioghi di una psicoanalisi applicata all’arte, interessata a interpretare i complessi e i sintomi dell’artista (patografia), per concentrarsi piuttosto sulla struttura dell’opera e su come essa sia in grado o meno di implicare la nostra soggettività. Un ribaltamento epocale in ambito interpretativo, in quanto non era più lo studioso a interpretare l’opera, bensì era l’opera a muovere lo spettatore, a dirgli qualcosa, obbligarlo a elaborare, spingendolo a quella che Freud chiama Dürcharbeitung, ossia un lavoro assiduo, intenso e profondo dell’inconscio.
Insomma, è l’arte a metterci al lavoro, a dirci qualcosa. Questo ribalta le prospettive: è l’arte che ci guarda! E cosa mai avrà da vedere?
Jacques Lacan su questo ha dato dei contributi straordinari, per esempio quando analizza Las Meninas di Velasquez partendo da quella porta che si apre sul fondo del quadro, ribaltando la prospettiva di chi guarda in chi è guardato. E a essa si aggiunge lo specchio sulla parete di fondo, che rispecchia appunto ciò che nel quadro è nascosto: il re e la regina cui il pittore sta facendo il ritratto sulla grande tela che noi vediamo nel foreground dell’opera, ma da dietro. Nello specchio s’incornicia – dirà Lacan – l’immagine riflessa dell’assenza, di quanto resta invisibile allo spettatore e di cui, in verità, non si può dedurre la natura di riflesso: se sia cioè immagine del dipinto o immagine diretta della coppia regale in posa.
E Foucault insiste sul medesimo aspetto di ribaltamento dell’opera di Velasquez: assoggettati allo sguardo del pittore, siamo uniti al dipinto in quanto sembra che il pittore rappresentato sul lato destro del quadro stia guardando proprio noi. Invece “il pittore dirige gli occhi verso di noi solo nella misura in cui ci troviamo nel luogo del suo modello”.
Da lì a poco dirigerò dunque il primo Laboratorio di Psicoanalisi “Applicata”, il cui nome subirà una necessaria torsione epistemologica in Psicoanalisi “Implicata”.
L’idea che l’opera ci guardi diventerà per me una bussola non solo dell’interpretazione dell’arte, ma anche della fenomenologia clinica. Attualmente, dirigo a Milano la Scuola di Specializzazione in Psicoterapia Analitica di Gruppo “Nuova Clinica Nuovi Setting” e vi insegno diverse articolazioni della psicoterapia psicoanalitica. Per insegnare ai futuri psicoterapeuti come accogliere il materiale e la comunicazione del paziente, uso gli stessi principi di allora: il testo, anzi meglio l’Utterance del paziente, ossia l’insieme degli atti comunicativi e relazionali che passano nella relazione terapeutica. È l’opera che ci guarda, ci muove, ci fa elaborare: dobbiamo imparare a decostruirne i processi, a capire dove ci mette, come ci plasma, cosa vede.
All’Università di Bologna, Plevano fu ripetutamente mio ospite. Due “libertà” si erano incontrate e con una gran voglia di fare di questo incontro un atto creativo da entrambe le parti: lui con la sua opera, io con la mia. Ne nacque un connubio durato quarant’anni con varie mostre e cataloghi condivisi. Lui andava dicendo che la mia analisi gli aveva cambiato il suo rapporto con l’opera e vari artisti si fecero avanti per tentare con me il medesimo esperimento, ma mi mantenni fondamentalmente fedele al mio nuovo compagno di viaggio intellettuale.
Con gli studenti, dunque, provavamo a far parlare la sua opera. Che l’arte cosiddetta “figurativa” non sia solo per gli occhi, ma per tutto il corpo, cambia radicalmente il modo di fruire dell’opera e Plevano ce ne dava un esempio paradigmatico. Sembra difficile applicare questa logica a opere astratte e, tuttavia, se prendiamo anche solo le storiche Regate veliche, ci rendiamo immediatamente conto che lo sguardo vacilla, l’opera ci muove alla ricerca di un centro che non c’è, nella necessità di un accomodamento continuo. Il silenzio è d’oro è stata sempre una delle mie opere preferite: effettivamente in un silenzio di pochi segni che prendono spazio, non quindi nel vociare delle Regate, il gioco di equilibri fra i pesi che assumono le forme lo percepiamo propriocettivamente in un moto gravitazionale nel nostro stesso corpo. Questo lo possiamo sperimentare anche nelle opere meno entropiche, come le Crocifissioni, in cui l’autore compensa la riduzione dei segni con una certa smarcata allusione simbolica. Ma in questo processo d’analisi non c’interessa la riduzione di un’opera al suo significato, che porterebbe a un riduttivismo interpretativo di scarso valore cognitivo; a noi interessa, piuttosto, come il tema cristiano della croce, ad esempio, abbia mosso Plevano non a descriverci narrativamente qualcosa di correlato al Calvario, ma a spingerci a cogliere nel nostro stesso corpo un senso di vacillamento, di impossibile stabilità: qualcosa a volte di sospeso in un ipotetico “alto” che ci fa muovere gli occhi al di sopra della nostra testa a cercare un “altrove” che non appartiene al mondo delle cose. A quel punto il titolo “Crocifissione” che potrebbe essere uno dei possibili significati che supportano questo insieme di segni dà, finalmente, un certo orientamento cognitivo all’esperienza di fruizione dell’opera. Quando raggiungiamo questo incontro fra esperienza sensorio-motoria e processo semantico, in realtà l’apertura all’esperienza tende a richiudersi: denotando l’esperienza il corpo si tranquillizza.
L’arte, tuttavia, necessita di una certa incompletezza, proprio come l’interpretazione del sogno. Non cessa di rilanciare il processo. L’organizzarsi delle rappresentazioni è ciò che nel sogno ci permette di continuare a dormire. Quando le rappresentazioni superano un certo livello d’incongruenza non sono più in grado di proteggere il sonno e ci svegliamo magari in preda all’angoscia. L’interpretazione del sogno, però, analiticamente, ci porta nella direzione opposta, quella di seguire il flusso delle associazioni alla continua ricerca di senso. Così ci avventuriamo nella dialettica tra il rappresentabile e l’irrappresentabile del desiderio, di cui il sogno si fa portavoce mascherato. Questo punto di scarto, questo inabissamento del senso fa dire a Freud che per l’interpretazione di un singolo sogno potrebbe non bastare un’intera psicoanalisi, in quanto il sogno sì costruisce sempre verso una deriva delle rappresentazioni, verso un punto di nonsense, che ne rappresenta il suo ombelico, il punto in cui le rappresentazioni non sono più in grado di rappresentare.
Questa teoria di un punto vuoto nell’universo delle rappresentazioni è ciò che fa, anche dell’arte, la sua magia combinatoria. Di un’opera d’arte godiamo massimamente il momento in cui, subito dopo averlo trovato, ci separiamo nuovamente dal suo “significato” per rivalorizzare l’esperienza di ricerca del senso come tale: esperienza, che è sempre un’esperienza del corpo. Rocce della Sardegna ci portano rapidamente dentro questa esperienza di ricerca di un punto d’appoggio dello sguardo. Quando ci confrontiamo con la proliferazione di significati cui l’autore ci vuole convincere coi suoi titoli, ci rendiamo conto che come fruitori siamo spinti a un lavoro di continua disambiguazione:
- fra ciò che viviamo a livello senso-motorio, muovendoci fra gli anfratti di segni, sbirciando nei vuoti fra le forme;
- e gli anfratti del senso, la ridondanza dei titoli verso cui ci vuole orientare l’artista.

E non solo in quelle opere. Spesso in Plevano rincontriamo questa proliferazione di titoli che cercano di dire qualcosa che mostra proprio il non riuscire a dire del tutto di ciò che accade nel corpo. Chernobyl for men ne è forse l’esempio più significativo: un gioco di forme e colori che ci costringono a subire una vertigine gravitazionale. Forse quel “for men” del titolo ne rappresenta proprio il punto di massima vertigine nel confronto col mondo dei significati. Com’è che Chernobyl può essere “for men”? Ma di che “men” si potrà mai trattare? E il “for” non è forse ancora più enigmatico? Ma quell’opera dove ci mette? Come ci mette? Cosa ci accade a stare sotto quella sfera che non si sa se sta salendo o precipitando? L’opera non è, dunque, proprio quello spazio intermedio, transizionale, fra il corpo e il senso?
Inutile dire che questa bizzarra idea di una lettura dell’opera come “implicante” piuttosto che come “oggetto di applicazione” di un sapere, io lo derivavo anzitutto dal mio rapporto con lo studio di Freud. Sebbene non lo espliciti in modo così diretto, quell’unica lezione che ce ne ha dato di fronte al Mosè di Michelangelo, che non cessava di visitare a Roma in S. Pietro in Vincoli, rappresenta un modello unico di psicoanalisi “implicata”.
Freud si sentiva proprio di dover abbassare lo sguardo di fronte all’opera. La psicoanalisi non è solo una scienza applicativa dell’interpretazione, ma ci insegna anche che possiamo trovarci assoggettati dalle cose, come dall’Altro. Con l’arte possiamo esercitare la facoltà di vederci, come accade nel sogno, “posizionati”. Nel sogno ciò accade abitualmente: ci vediamo nella scena da un punto di sguardo misteriosamente differente da quello che ci rappresenta e questo vale anche per le cose che possiamo, non si sa perché, guardare contemporaneamente da punti diversi.
L’arte è un sogno, ci ha insegnato Freud, a occhi aperti. Anzi l’arte è un sogno per tutti coloro che sono disposti a sognarlo. L’arte presta sogni agli esseri parlanti, spinge a un Dürcharbeitung, un lavoro psichico ancora più intenso. Se il sogno è ciò che protegge il sonno, prestando rappresentazioni che organizzano i materiali caotici, i “resti diurni” che accumuliamo nell’esistenza carichi di valori emozionali, a volte dolorosi e contrastanti, non sono sempre elaborabili. È così che si fa una componente essenziale per l’economia della mente collettiva.
Plevano era un artista portatore di un valore raro: quell’inquietudine rara e antica che cerca domande, anziché risposte. Per questo veniva con entusiasmo a incontrare i giovani per capire, perché gli insegnassero cosa il suo sforzo creativo avesse qualcosa da dire. Non lo chiedeva ai critici d’arte, non l’ha mai cercato nei luoghi di potere. Io ricordo la sua tragica disperazione quando gli distrussero un’opera pubblica che lui aveva generosamente donato al parco di Buccinasco: 10 metri di segni. Voleva capire come un artista potesse dare un contributo all’ecologia della mente collettiva. Invece ne ricevette solo un atto vandalico. Dov’è dunque il posto dell’arte? Non nelle gallerie d’arte, luogo di manipolazione selettiva legata al business del collezionista, ma neppure nella pubblica piazza. Ma il vero nemico dell’arte cominciava ad affacciarsi negli anni ‘90: la digitalizzazione dei corpi e delle menti delle nuove generazioni. Il videogame ha una potenza di muovere i corpi con la tecnologia delle immagini come, da quel momento, nessun prodotto ad arte sarà più in grado di fare.
Eppure siamo ancora qui a ragionare di arte. Io la insegno ai giovani psicoterapeuti per preservare un’area ecologica alla mente del terapeuta e le attuali sei sedi dell’Istituto di Psicosomatica Integrata che io dirigo sono tutte costellate dalle opere di Plevano. Plevano è, dunque, dopo quarant’anni, ancora al mio fianco con due obiettivi: preservare un senso dell’esperienza della vita come tensione continua verso un limite tanto insopportabile, quanto necessario a garantire uno slancio continuo al suo superamento. Il secondo riguarda l’arte come via di “umanizzazione”, come antidoto o compensazione a quella irreversibile disumanizzazione digitale, che muove i corpi senza più produrre interrogativi. L’arte come palestra della mente umana a esplorare i limiti del pensabile e del rappresentabile. L’addomesticamento dell’animale è proprio il trionfo della tecnologia. La psicologia sperimentale nasce proprio su questo: come far muovere il topo nel labirinto secondo il desiderio dello sperimentatore. L’arte, invece, non può fare statistica, perché se la facesse diventerebbe un oggetto di mercato. È vero che esiste il mercato dell’arte, ma esiste anche quello degli organi umani: Plevano c’insegna che in qualsiasi mercato c’è sempre in gioco un fondo d’immoralità. Non può essere, dunque, cosa dell’arte, il mercato! Perché l’arte non può appartenere a qualcuno, non può essere “privata”. L’arte è per chiunque si lasci avventurare dai moti che produce nei corpi per interrogarli, per farci portare metodologicamente oltre i limiti di ciò che rappresenta.
L’arte è un esercizio di umiltà, è il contrario dei videogame: non si appoggia sull’automatismo, non punta alla performance. Mira, piuttosto, al piegare la testa, all’abbandono dello sguardo, al tornare in sé, dentro di sé, per interrogarne l’esperienza.

 Plevano